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Introduzione


La mia prospettiva è dove tramonta e sorge il sole.
Il mio nome? Non mi direbbe nulla se non fossi come sono. Non so se Anna o Maria o Anna Maria avrebbero potuto rappresentare qualcosa di diverso per me. Forse la mia storia sarebbe stata più lineare, più ortodossa, più consona agli schemi del così detto buon senso comune? Forse.
In fondo non è così bello né così evocativo ed è già un diminutivo. Con il cognome il problema non si pone proprio. Mi ha dato lo “zero positivo” come gruppo sanguigno e con esso l’alterigia, la superbia, talvolta l’arroganza. La consapevolezza di sapere ma anche l’umiltà di imparare sempre tutto quello che non so con impegno radicale.
Ostinata e pronta a pagare per questo sempre il prezzo più elevato come la mortificazione del mio orgoglio e delle mie ambizioni, mai fine a sé stesse. Disposta però a donarmi senza riserve. A capire, a giustificare. A proiettarmi nel bisogno e nella sofferenza per la quale spendersi senza esitazione. L’amore per me è senza ostacoli. Senza steccati. È amore.
Il mio cognome non si discute. Ma il mio nome mi fa pensare. Se non fosse per quella “d” mi chiamerei “nana”. Beh, non sono proprio alta, ma neppure nana. Forse alla francese andrebbe meglio? “Nanà”. Si, “Nanà”. Però per i francesi è senza l’accento finale. Mi andrebbe proprio bene. Mi sa di “crazy horse” e di certo non andrebbe nella direzione di quel buon senso comune.
Ecco, il cognome ha il sopravvento. Preferisce fuori. Non dico del senso, ma fuori da quel senso. Devo proprio tenermelo questo nome? Al più “Nanà”. Ma se poi, nel pronunciarlo, si dimenticassero dell’accento?